Roma Ciclismo e medaglie olimpiche.
(la foto del quartetto azzurro è di museociclismo.it)
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di Luca Pelosi (Il Romanista)
Il viaggio, che è iniziato a Los Angeles 1932 con Ghilardi e proseguito a Berlino 1936 con Gentili e un quartetto molto giallorosso, continua. E vive probabilmente il suo momento più significativo a Roma, nel 1960, con Livio Trapè. Una storia che però inizia tre anni prima, perché è nel 1957 che Pietro Chiappini ha l’intuizione di far vestire la maglia dell’A.S. Roma Ciclismo a un ventenne di Montefiascone che fino all’anno prima ha vestito la maglia della Lazio. Già l’anno prima, nel 1956, Trapè aveva toccato con mano la forza della squadra romanista. Nel Gran Premio Achille Lauro ci fu un entusiasmante uno contro tutti, in cui l’uno, cioè Livio, aveva toccato con mano la forza del team della Roma e l’abilità dello stesso Chiappini nel dirigerlo.
Nato il 26 maggio 1937 a Montefiascone, al suo primo anno in giallorosso vince 12 corse, viene convocato in Nazionale e diventa il beniamino di tutti. Sono anni di grande fermento, il presidente Ferioli adora Trapè e coccola tutti gli altri. Il Motovelodromo Appio vive i suoi ultimi giorni di gloria, ormai sostituito dal Velodromo Olimpico dell’Eur, che sarà teatro dei Giochi olimpici di Roma 1960. È quello l’appuntamento in nome del quale Livo Trapè rinvia il passaggio al professionismo.
La mattina del 26 Agosto 1960 lo troviamo in compagnia di Antonio Bailetti, Ottavio Cogliati e Giacomo Forconi, nella prova della 100 km a squadre, che sul circuito di Castel Fusano inaugura la sequela di successi azzurri nell’edizione di Roma 1960. Tutti lombardi, tranne lui. “Loro pensavano che fossi un’intruso, mentre io ero il perno della nazionale italiana”. I tecnici italiani lo sanno e lo inseriscono nella squadra anche a rischio di minarne gli equilibri. La scelta risulta vincente, tanto che la vittoria è strepitosa. Lungo il percorso gli italiani raggiungono diversi quartetti partiti prima di loro e concludono la prova in compagnia di due squadre avversarie con il tempo di 2h14’33″53″‘. Sul podio i nostri azzurri salgono con alla destra la Germania e alla sinistra l’Unione Sovietica. Ma il primo ad abbracciare Livio Trapè è proprio Pietro Chiappini, presente ai piedi del podio, lui che ha sempre creduto nel corridore di Montefiascone.
È il giorno della morte del danese Knud Enemark, che perde l’equilibrio e cade. Inizialmente si pensa a una insolazione, dovuta ai 40 gradi misurati sul percorso. Al Sant’Eugenio, dove viene trasportato d’urgenza ed entra in coma per morire tre ore dopo, l’autopsia rivela la vera causa della morte: non un’insolazione, ma un’intossicazione dovuta all’assunzione, per via endovenosa, di una dose troppo forte di stimolanti.
Tre giorni dopo è il momento della prova individuale. Un gruppo di 136 atleti prende il via sul circuito di Grottarossa; i favoriti sono i tedeschi, già vincitori dei Campionati del Mondo su strada negli ultimi tre anni, ma è il sovietico Viktor Kapitonov a scattare sulla salita che dà il nome a quel circuito: quaranta chilometri lo dividono dal traguardo finale, quando il solo a reagire è proprio il prodotto dell’A.S. Roma Ciclismo, Livio Trapè. Con un’azione breve ed efficace il campione scoperto da Chiappini, che anche in quel giorno è presente sul circuito, riesce a riportarsi sul fuggitivo per passare al comando e dare un impulso decisivo a quell’azione. La cronaca ci racconta della generosa azione di Trapè interrotta da un banale equivoco che induce inutilmente il sovietico a sprintare sotto il traguardo del penultimo giro. Nella volata finale l’azzurro parte troppo da lontano confidando nelle sue doti di fondo, ma la tattica più accorta di Kapitonov gli consente di sfruttare fino in fondo la scia per saltarlo agevolmente negli ultimi metri. Terzo e medaglia di bronzo è il belga Willy Van Den Berghen.
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